Sentenza n. 747 del 26 aprile 1954
del Tribunale Supremo Militare
in cui si riconosce lo status di militari belligeranti
di quanti appartennero alle forze armate della RSI
in cui si riconosce lo status di militari belligeranti
di quanti appartennero alle forze armate della RSI
I COMBATTENTI DELLA
RSI CONSIDERATI BELLIGERANTI DA UNA SENTENZA
DEL TRIBUNALE SUPREMO
MILITARE (N. 747 del 26.4.1954)
Ecco la parte conclusiva della
sentenza che legittima le Forze Armate della RSI e, nel contempo, non
attribuisce agli appartenenti alle formazioni partigiane la qualifica di
belligeranti, perché non portavano distintivi riconoscibili a distanza né erano
assoggettati alla legge penale militare.
Nel processo contro alcuni
ufficiali della "Legione Tagliamento" ricorrenti contro la sentenza
del Tribunale Militare di Milano che aveva, tra l'altro negato che la RSI
avesse costituito un governo di fatto e che, pertanto, i suoi ordini potessero
ritenersi legittimi, il Tribunale Supremo Militare ha pronunziato una sentenza
di eccezionale importanza (26 aprile 1954, Presidente Buoncompagni, Rel.
Ciardi) che ha affrontato e risolto, con alto senso giuridico e storico, le più
dibattute ed ardenti questioni in tema di collaborazionismo. Diamo qui di
seguito, fedelmente riprodotto, il testo della sentenza dal quale abbiamo
tolto, per amore di brevità, soltanto qualche brano senza intaccare la sostanza
delle motivazioni dell'Alta Magistratura Militare. Ecco il testo della
sentenza:
“In questa sede non può trovare
asilo passione politica alcuna. Nell'immediato dopoguerra le divergenze
politiche e ideali, i risentimenti delle famiglie e degli individui, il sangue
sparso e la visione della Patria umiliata, dilaniata e infranta, ebbero
indubbiamente influenza sul corso normale della Giustizia, che, attraverso
l'Alta Corte e le Sezioni Speciali di Corte d'Assise, pronunciò talvolta
severissime ed estreme condanne. Ma oggi che il Paese può dirsi risorto, mercè
l'opera costruttiva dei suoi Governi e il sacrificio, l'energia e la forza
d'animo di tutto il popolo italiano, la Giustizia deve adempiere con la
maggiore serenità ed obiettività possibile la sua missione, sceverando la colpa
dall'errore, il delitto dall'azione ritenuta di giovamento nel divenire della
Patria, e soprattutto rimanendo nei binari della legge”.
“Questo Tribunale Supremo
Militare ricorda l'anelito di pacificazione che pervade tutto il popolo
italiano e tutti i partiti, nessuno escluso, anelito tradotto dai singoli
Governi che si sono susseguiti, dal 1946 ad oggi, in decreti di Sovrana
clemenza, intesi a porre sempre più sullo stesso piano morale tutti gli
italiani in buona fede, per modo che tutti si sentano figli della stessa
Patria, e non vi siano più dei tollerati, degli umiliati e dei reietti, cui si
possa, ad ogni istante, rinfacciare un passato che fu piuttosto opera del fato,
che degli individui, salvo la legittima repressione dell'azione delittuosa, da
chiunque commessa, secondo i canoni immutabili del puro diritto”.
“Le leggi che continuamente si
susseguono in pro della pacificazione (da ultimo la pensione concessa agli
appartenenti alla milizia), dimostrano a chiare note, l'indirizzo non solo
giuridico, ma altresì etico del Governo e del Parlamento.
“La cronaca sta diventando
storia. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e nei primi anni del
dopoguerra, "quelli del Nord" additavano come traditori "quelli
del Sud" e viceversa. Gli appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana si
ritenevano unici depositari dell'onore militare e dell'amor di Patria, e lo
stesso ritenevano coloro che avevano seguito il Governo del Re”.
“Un popolo di antica civiltà romana
e cristiana, un popolo che ha sempre insegnato al mondo il giusto cammino, era,
dunque, diventato un popolo di traditori. Le leggi del vincitore avevano
dettato severissime norme contro il collaborazionismo; ma al giudice spettava e
spetta di esaminare e vagliare se tradimento ci fu, o se solo vi fu
incomprensione o errore”.
“Questo Tribunale Supremo
Militare, giudice esclusivo del diritto, sente l'altezza del suo compito,
nell'ora in cui è doveroso esprimere una valutazione e un esame approfondito, sereno
e obiettivo delle questioni proposte, nel rispetto delle convenzioni
internazionali e del diritto intorno, e nello spirito cui oggi si informano
Governo e Parlamento”.
“Pertanto appare necessario
prendere anzitutto in esame talune questioni fondamentali trattate dalla
gravata sentenza e specialmente quelle che concernono il carattere della
Repubblica Sociale Italiana, la qualità di belligeranti dei combattenti della
Repubblica Sociale Italiana, la posizione giuridica dei partigiani, e, infine,
le discriminanti concernenti l'adempimento del dovere e lo stato di necessità”.
Carattere della Repubblica
Sociale Italiana
“...Dopo l'armistizio dell'8
settembre 1943 la sovranità di fatto o meglio l'autorità del potere legale, fu
nella parte dell'Italia, ove risiedeva il Governo legittimo, esercitata dalle
Potenze alleate occupanti. Non poteva altrimenti essere, dal momento che,
durante il regime di armistizio, permaneva lo stato di guerra e l'occupante era
sempre giuridicamente "il nemico"”.
“Basti considerare che tutte le
leggi e tutti i decreti, compresa la legge sulle sanzioni contro il fascismo
(ordinanza n.2 della commissione alleata in data 27 aprile 1945), ricevevano
piena forza ed effetto di legge a seguito di ordini degli Alleati). Pertanto,
il governo del re era un governo che esercitava il suo potere "sub
condicione", nei limiti assegnati dal Comando degli eserciti nemici”.
“Le situazioni contingenti che
ebbero a verificarsi per la dichiarazione di guerra alla Germania, per la
cobelligeranza e per i comuni interessi esistenti tra lo Stato italiano e gli
Stati alleati, non possono mutare e trasformare la situazione giuridica che si
era creata secondo quelle che erano le regole del diritto internazionale”.
“Se questi erano gli aspetti
giuridici della Sovranità nell'Italia del Sud, non poteva per certo il
legittimo Governo italiano, che aveva solo quella limitata potestà che le
potenze occupanti gli concedevano, interferire nell'Italia del Nord e del
Centro, dove gli alleati non erano ancora pervenuti. La autorità del potere
legale era colà in altre mani; una nuova organizzazione politica si era creata,
con un proprio Governo, e, cioè, la Repubblica Sociale Italiana, riconosciuta
come Stato soltanto dalla Germania e dai suoi alleati”.
“Indubbiamente tale nuovo Stato
non poteva essere considerato soggetto di diritto internazionale, con gli
attributi della piena sovranità dagli Stati che non lo avevano riconosciuto;
esso assumeva, almeno formalmente, la piena personalità giuridica solo di
fronte agli Stati che gli avevano conferito detto riconoscimento. Tuttavia non
poteva, nel campo del diritto delle genti, negarsi che comunque,
un'organizzazione statuale, sia pure di fatto, esisteva, avente capacità
giuridica propria e una propria sfera, se pur limitata, di autonomia, la quale
ultima, si rilevi, non è sinonimo di indipendenza e di sovranità che altrimenti
dovrebbe parlarsi di Stato di diritto”.
“È comunemente accettato nella
dottrina internazionalistica che, nel caso si verifichi un movimento
insurrezionale, sussiste un governo di fatto in quella parte di territorio
assoggettato al controllo degli insorti e sottratta al controllo del Governo
legittimo”.
“Quest'ultimo perde, "de
facto", le attribuzioni e le competenze di diritto internazionale,
condizionate all'esercizio della potestà territoriale, essendo ad esso
succeduto, in quella parte di territorio, il governo degli insorti”.
“Indubbiamente pressoché
immutato era rimasto l'ordinamento giuridico esistente nella Repubblica Sociale
Italiana: gli stessi codici, le stesse leggi venivano applicati dagli organi
del potere esecutivo e dalla Magistratura. L'organizzazione statuale si
manteneva in piedi a mezzo delle autorità preposte (dei Prefetti, delle Corti e
dei Tribunali, degli uffici esecutivi, delle Forze Armate e di Polizia)”.
“Evidentemente l'Autorità
tedesca ebbe allora ad inserirsi nella vita italiana del centro-nord, con i
suoi princìpi e i suoi durissimi metodi di lotta; indubbiamente le autorità
della Repubblica Sociale Italiana subirono talvolta la pressione e le direttive
del loro alleato, pur opponendosi spesso con energia alle sue iniziative; ma
tutto ciò non può mutare la posizione giuridica della Repubblica Sociale
Italiana, di essere un governo di fatto, sia pure a titolo provvisorio, che
manteneva relazioni diplomatiche con alcuni Stati e intrecciava rapporti
internazionali, quanto meno ufficiosi, con molti altri che pur non l'avevano
riconosciuta”.
“La storia di tutte le guerre
insegna che molto spesso, anche quando trattasi di alleati, che insieme
combattono sul territorio appartenente ad uno di essi, lo Stato più forte e più
potente finisce col prendere le maggiori iniziative, interferendo nella vita e
nella potestà dello Stato meno forte, imponendo le sue direttive e, talvolta,
la sua forza e i suoi tribunali (esempio: corpi di spedizione alleati nella
guerra 1915-1918 in territorio greco). Tuttavia la situazione di fatto che
viene a crearsi tra l'alleato più potente e quello meno forte non incide sul
carattere formale e giuridico dell'alleanza. Da ciò consegue che, nella specie,
non basta rifarsi ai metodi tedeschi, per dedurne che essi erano gli occupanti
e per negare alla Repubblica Sociale Italiana il carattere di un Governo di
fatto; né la situazione fluida, durata pochi giorni, tra l'8 e il 23 settembre
1943, giorno in cui Mussolini ebbe a proclamarsi capo dello Stato fascista
repubblicano e capo del governo, autorizza a ritenere che solo un regime di
occupazione si sia costituito nel centro-nord dell'Italia ad opera delle Forze
Armate tedesche. Si dimentica in tal modo che anche le Forze Armate alle
dipendenze di Mussolini e di Rodolfo Graziani occupavano il territorio
suddetto, che l'ordinanza Kesselring, in data 11 settembre 1943, che
assoggettava il territorio italiano alle leggi tedesche, cessò di avere
efficacia proprio con il 23 settembre 1943, quando, se pur non ancora
proclamata la Repubblica Sociale Italiana (che nacque il 25 novembre 1943),
esisteva già il cosiddetto Stato fascista repubblicano”.
“Certo è che in quei giorni, la
sovranità dello Stato italiano si ridusse solo ad una consistenza formale e
giuridica: il re aveva lasciato la capitale e con il suo Governo aveva, a
seguito dell'armistizio, preso contatto con gli alleati, nel nobile intento di
salvare l'unità e l'indipendenza d'Italia. Il Governo legittimo potè così
incominciare a consolidarsi, secondo le direttive degli alleati, e a lanciare i
suoi ordini e i suoi proclami”.
“Dal parallelo che scaturisce
tra il regime del centro-nord e quello del sud appare, adunque, che "de facto",
il Governo legittimo e quello di Mussolini avevano una libertà limitata:
"de jure", era peraltro, preclusa al governo legittimo, ogni
indipendenza, mentre, invece, tale formale preclusione non esisteva per la
Repubblica Sociale Italiana che emanava le sue leggi e i suoi decreti senza
l'autorizzazione dell'alleato tedesco”.
“Quando vuol darsi una
definizione giuridica di una organizzazione insurrezionale è, pertanto,
necessario non solo prendere in esame il suo ordinamento giuridico e la sua
sfera di autonomia nel territorio ad essa soggetto, ma guardare altresì detta
organizzazione al cospetto degli altri Stati, con particolare riferimento al
governo legittimo. Se lo Stato nazionale domina, nonostante l'insurrezione, la
situazione che si è creata, e ha la possibilità e la capacità di esaurirla in
breve termine, allora può discutersi e forse anche negarsi l'esistenza di un
governo di fatto insurrezionale; ma quando tale capacità non esiste, quando il
governo legittimo è addirittura alla mercè del nemico, e l'autorità del governo
insurrezionale si consolida nei suoi ordinamenti, e la sua vita è di non breve
durata, allora non è più possibile negare a quest'ultimo il carattere di un
governo di fatto, secondo i princìpi comunemente accolti nella dottrina internazionalistica”.
“Pertanto, deve concludersi che
la Repubblica Sociale Italiana era retta da un governo di fatto, dalla quale
nozione scaturiscono le conseguenze giuridiche che tra breve saranno
esaminate”.
“Per esaminare a fondo il
problema occorre rifarsi all'origine della belligeranza. Quando fu pubblicato
l'armistizio dell'8 settembre 1943, una parte delle Forze Armate italiane non
lo accettò e proseguì nelle ostilità contro il nemico, e, cioè, contro gli
alleati che avevano messo piede in Italia”.
“Indubbiamente i comandanti dei
reparti che non obbedirono agli ordini del governo legittimo violarono la norma
di cui all'articolo 168 codice penale militare di guerra, con cui si punisce
l'arbitrario prolungamento delle ostilità”.
“Questo fatto non sopprimeva,
di fronte agli alleati, la qualità di belligeranti che spettava a tutti i
combattenti; di fronte agli anglo-americani e loro alleati, tuttora nemici,
anche in clima di armistizio non potevano i combattenti italiani - sia pure
ribelli agli ordini del Supremo Comando italiano - perdere il loro carattere di
belligeranti, così come è stabilito nelle convenzioni internazionali e come è
comunemente accettato”.
“Mai è avvenuto nella storia di
tutte le guerre, di negare tale caratteristica alle truppe che non accettano la
resa. Colpevoli i combattenti che non obbedirono agli ordini del re, di fronte
allo Stato italiano, ma sempre soldati e belligeranti di fronte al nemico”.
“I combattenti che non si
arresero ritennero di dover mantenere fede all'alleato tedesco, e
fronteggiarono a viso aperto l'avversario, venendo dal medesimo fino all'ultimo
trattati come combattenti e come belligeranti”.
“L'articolo 40 del citato
regolamento annesso alla Convenzione dell'Aja dichiara che ogni grave
infrazione dell'armistizio, commessa da una delle parti, dà diritto all'altra
di rinunciare e, in caso d'urgenza, anche di riprendere immediatamente le
ostilità. Nella specie che ci occupa non ci fu infrazione da parte dello Stato
italiano, ma solo da parte di considerevoli unità, di terra, di mare, e
dell'aria. Ed allora il conflitto non ebbe a cessare: gli alleati
fronteggiarono egualmente truppe tedesche e italiane, e solo più tardi, molto
stentatamente, si attuò la cobelligeranza coi reparti regolari italiani,
fiancheggiati dalle formazioni partigiane”.
“Ciò appartiene alla Storia!
Non può, pertanto, negarsi, alla stregua dell'articolo 40 suddetto, che gli
appartenenti alle Forze Armate della R.S.I. abbiano conservato la qualità di
belligeranti, né è possibile concepire che tali Forze avessero detta
caratteristica solo di fronte agli alleati e non al cospetto dei cobelligeranti
italiani”.
“Ecco come si spiega il
trattamento di prigionieri di guerra concesso dagli alleati - d'accordo col
Governo legittimo italiano - ai militari delle Forze Armate della Repubblica
Sociale Italiana, sin dai primi mesi del 1944. Ciò vale a smentire quelle
teorie unilaterali che, ormai, sono del tutto superate, con cui si vuole negare
il carattere di belligeranti ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana,
argomentando in maniera erronea e fallace, in base alle norme della
legislazione italiana post-fascista, che, come si è rilevato, non ha, sotto il
profilo del diritto internazionale, alcuna veste e alcuna autorità al
riguardo”.
“Belligeranti, adunque, erano i
combattenti del Centro-Nord, anche se ribelli o insorti e, quindi, punibili
secondo il diritto interno in base allo svolgimento di regolari giudizi”.
“Ma pure da un altro punto di
vista si conferma la tesi suesposta. Accertato che la Repubblica Sociale
Italiana concretava un governo di fatto, soggetto di diritto internazionale,
entro certi limiti, non poteva, sotto questo riflesso, negarsi ai suoi
combattenti la qualifica di belligeranti. Anche a voler considerare, per
dannata ipotesi come fa la sentenza impugnata, i reparti della RSI quali
milizie alle dipendenze del tedesco invasore, egualmente dovrebbe ad essi
riconoscersi la qualifica di belligeranti, perché, comandati da capi
responsabili, portavano segni distintivi e riconoscibili a distanza,
apertamente le armi, e si conformavano, per quanto era possibile, nei confronti
dell'avversario belligerante, alle leggi e agli usi di guerra (i partigiani non
erano belligeranti, come si vedrà in seguito); né può far velo a tale soluzione
giuridica la caratteristica insurrezionale di detti reparti, poiché l'articolo
1 della Convenzione dell'Aja non fa distinzioni di sorta. D'altronde
l'interpretazione pressoché autentica di questi princìpi è fornita
dall'articolo 4 della Convenzione di Ginevra, 8 dicembre 1949, relativa al
trattamento dei prigionieri di guerra, convenzione che ha reso normativo quello
che era già accettato nell'attuazione pratica del diritto internazionale
bellico”.
“Infatti il n. 2 del detto
articolo 4, prendendo evidentemente le mosse dall'articolo 3 del Regolamento
annesso alla Convenzione dell'Aja il quale dichiara che gli appartenenti alle
forze armate delle parti belligeranti hanno diritto, in caso di cattura, al
trattamento dei prigionieri di guerra, precisa che "sono prigionieri di
guerra i membri delle altre milizie e i membri degli altri corpi volontari, ivi
compresi quelli dei movimenti di resistenza organizzati, appartenenti ad una
parte in conflitto e agente fuori e all'interno del loro territorio, anche se
questo territorio è occupato, purché queste milizie o corpi volontari, ivi
compresi i movimenti di resistenza organizzati, adempiano le condizioni
seguenti: a) avere a capo una persona responsabile per i suoi subordinati; b)
avere un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; c) portare
apertamente le armi; d) conformarsi, nelle loro operazioni, alle leggi e agli
usi di guerra".
“Questi princìpi erano stati
già applicati durante la guerra, tant'è che gli alleati ottennero dalla
Germania il trattamento di legittimi combattenti alle formazioni della
"Francia Libera" del generale De Gaulle, nonostante la resa dello
Stato francese”.
“L'impugnata sentenza tratta in
un modo troppo semplicistico il problema della belligeranza, considerando
l'organizzazione militare della Repubblica Sociale Italiana come "rivolta
alla ribellione contro lo Stato legittimo, e quindi non aventi alcun valore le
norme, gli ordini, i vincoli di subordinazione e i poteri gerarchici da essa
emanati".
“Pertanto, rifacendosi solo al
diritto interno, negando la caratteristica di governo di fatto alla Repubblica
Sociale Italiana, che perfino il Pubblico Ministero aveva riconosciuto con
serena obiettività e profondità di argomentazioni - pur non traendone le
necessarie conseguenze - ha finito col non ritenere la belligeranza degli
avversari, per potere, in prosieguo di motivazione, trattare soltanto da
ribelli i combattenti della Repubblica suddetta, ed escludere, quindi, le
fondamentali discriminanti dell'adempimento del dovere e dello stato di necessità
di cui si dirà in seguito”.
“In tal modo, disavvenendo a
tutte le norme in materia, si perpetua una particolare valutazione dei fatti
che, se era spiegabile nei primi dolorosi anni del dopoguerra, oggi non può
essere consentita, nel clima dell'auspicata pacificazione e delle sopite
passioni politiche, e nell'austera applicazione del puro diritto”.
Carattere di non belligeranza
dei partigiani
“Il giudice di merito ha,
invece attribuito ai partigiani le qualità belligeranti, con una peregrina
interpretazione delle disposizioni vigenti”.
“Sotto il profilo etico deve
subito rilevarsi che tale qualifica non può togliere ai partigiani
quell'aureola di eroismo di cui molti si circondarono, ben conoscendo che da
belligeranti non potevano essere trattati, ed essendo certi che l'avversario -
appunto per difetto di tale loro qualità - li avrebbe spietatamente perseguiti.
Infatti, i combattenti delle truppe regolari italiane, se fatti prigionieri,
non subivano le repressioni dei plotoni d'esecuzione; le subivano, invece, i
partigiani che non potevano farsi usbergo della qualifica suddetta”.
“L'impugnata sentenza, si è
richiamata alla citata Convenzione di Ginevra, quando si è trattato di
qualificare belligeranti i partigiani, dando un'interpretazione arbitraria alle
norme surriferite”.
“Al riguardo non vale
argomentare che i partigiani fiancheggiavano le truppe regolari italiane, e che
facevano capo ai comandi italiani e alleati, per poi dedurne che avevano dei
capi responsabili; è necessario, invece, per risolvere la questione, riferirsi
esclusivamente alle formazioni partigiane, considerate per se stesse, per
quelle che erano e per il modo con cui si manifestarono, senza risalire ai
comandanti superiori delle Forze Armate, ben noti e riconosciuti sotto il loro
vero nome”.
“All'uopo si osserva: 1) i
belligeranti devono avere a capo una persona responsabile per i propri
subordinati. Non si comprende come il concetto di responsabilità possa
conciliarsi con quello di clandestinità, per cui i capi del movimento
partigiano, per non farsi riconoscere, per non essere identificati e traditi, e
correre l'immediato rischio di morte, si nascondevano sotto pseudonimi,
eliminando, per tal modo, quanto meno le responsabilità di ordine immediato”.
“Non si può dalla pratica
verificatasi in guerra, per cui talvolta i capi delle forze avversarie si
incontravano per venire a patti, dedurre senz'altro una inesistente giuridica
responsabilità dei capi partigiani, che, era invece, accuratamente evitata”.
“2) I belligeranti devono avere
un segno distintivo fisso, riconoscibile a distanza. Qui la sentenza è del
tutto generica, poiché si limita a citare due montanari che furono denunciati
perché avevano un fazzoletto verde; essa poi accenna, genericamente, a quanto
ebbe a riferire il teste - on. Ezio Moscatelli - e infine dichiara, per scienza
propria e contrariamente ad ogni norma processuale, constare al Collegio che la
formazione del Veneto e del Mortarolo portavano i richiesti distintivi di
belligeranza”.
“Tali distintivi devono essere
fissi e riconoscibili a distanza. Questo doveva dimostrare il giudice di merito
e non l'ha fatto”.
“La nostra legge di guerra,
approvata con Regio Decreto 8 luglio 1938 n. 1415, dispone all'articolo 25, in
armonia con le convenzioni internazionali, che i legittimi belligeranti debbono
indossare un'uniforme od essere muniti di distintivo fisso comune a tutti e
riconoscibile a distanza”.
“La sentenza non ha affatto
dimostrato - e non lo poteva - che esistesse un distintivo fisso di tal genere,
comune a tutti i partigiani e riconoscibile a distanza, sostitutivo, in altri
termini, della uniforme”.
“La lotta clandestina, condotta
dai partigiani senza dar quartiere e senza riceverne, imponeva dei metodi e
degli accorgimenti che contrastavano coi segni di riconoscimento richiesti.
Essi, che pur costituirono il nerbo della resistenza e addussero un apporto
fondamentale alla definitiva vittoria delle Forze Armate del legittimo Governo
italiano, combatterono una guerra singolare e, per certi aspetti, eroica,
sacrificandosi e immolandosi per il bene supremo della Patria. I loro atti di
guerra non hanno bisogno di essere legittimati attraverso la qualifica della
belligeranza; agirono come agirono, perché tra i reparti fascisti e i reparti
partigiani regnavano, quanto più, quanto meno, sistemi di combattimento, di
guerriglia, che avevano accantonato, come si vedrà in seguito, le fondamentali
norme del Codice penale militare di guerra. La loro opera deve essere
apprezzata e riconosciuta, per quanto essi fecero nell'interesse del Paese,
salvo la punibilità delle azioni delittuose eventualmente compiute”.
“3) I belligeranti devono
portare apertamente le armi. La stessa sentenza riconosce che non sempre ciò
era possibile, poiché tale requisito deve essere considerato alla luce della tecnica
particolare della guerra partigiana”.
“4) Infine, i belligeranti
debbono attenersi alle leggi e agli usi di guerra, sul qual punto il giudice di
merito non ha fornito che vaghe indicazioni; ma di questo si dirà meglio in
seguito”.
“Pertanto deve concludersi che
i partigiani, equiparati ai militari, ma non assoggettati alla legge penale
militare, per lo espresso disposto dell'articolo 1 del decreto legge 6
settembre 1946 n. 93, non possono essere considerati belligeranti, non
ricorrendo nei loro confronti le condizioni che le norme di diritto
internazionale cumulativamente richiedono”.
“Il magistrato ha un vasto
campo di valutazione, quello concernente il dolo che, in tema di collaborazione
propone il quesito seguente: il giudicabile ha inteso di collaborare
all'invasione del tedesco, ha voluto effettivamente tale invasione, o ha
ritenuto di agire per una sia pure errata visione del bene e del divenire della
Patria? Tale quesito, in altri termini ne pone un altro: è possibile,
nonostante la proclamata figura giuridica del "tedesco invasore",
ammettere una volontà di collaborazione non rivolta all'evento invasione, ma
volta invece al "divenire della Patria"? È possibile pensare che
l'agente, lungi dal ritenere la sua opera collaboratrice intesa a favorire
l'invasione, abbia, in buona fede, creduto che la Repubblica Sociale Italiana
si avvalesse delle forze tedesche per fronteggiare lo stesso nemico (gli
alleati), ma non certo per agevolare il tedesco nei suoi piani militari e
politici ai danni dell'Italia”.
"La storia dirà un giorno
- e la cronaca già si sofferma su questo punto - se i gerarchi della Repubblica
Sociale Italiana si opposero, con i mezzi a loro disposizione, ai piani del
tedesco, e se mirarono - sia pure ponendosi contro il Governo legittimo - al
solo bene dell'Italia, quale essi lo ritennero".
“Certo è che, nella disamina
delle responsabilità occorre avere presenti i proposti quesiti in tema di dolo,
al fine di accertare quale fu il movente e quale lo scopo per cui si attuò, nei
singoli casi, la collaborazione”.
“La Suprema Corte di
Cassazione, dopo una prima rigorosa giurisprudenza, che risentiva del clima in
cui ebbe a formarsi, ha sin dal primo semestre del 1947, discusso e ammesso la
possibilità, nella soggetta materia, delle discriminanti dell'adempimento del
dovere e dello stato di necessità”.
“Per lo contrario l'impugnata
sentenza ha, con criterio unilaterale, come si è superiormente rilevato,
ritenuto che la organizzazione militare della Repubblica Sociale Italiana, era
rivolta alla ribellione contro lo Stato legittimo, donde nessun valore poteva
attribuirsi alle norme, agli ordini, ai vincoli di subordinazione e ai poteri
gerarchici che da essa promanavano. All'uopo la sentenza ricorda che, secondo
la legge sulle sanzioni contro il fascismo, deve parlarsi di "sedicente
Repubblica Sociale Italiana" e che tale appellativo è sintomatico per la
soluzione della questione”.
“Deve, in proposito, rilevarsi
che il termine "sedicente" intende contrapporre tale Repubblica dello
Stato italiano legittimo; essa fu solo "sedicente", perché non ebbe
il pieno riconoscimento internazionale, né si sostituì allo Stato legittimo”.
“Queste locuzioni "Stato
di diritto", "Stato legittimo", non rispondono pienamente alla
terminologia del linguaggio tecnico-giuridico, ma sono utilmente adottate per
significare che non si tratta di uno Stato di fatto (altra locuzione
praticamente utile), ma dell'unico, vero, legittimo Stato. Con tali argomenti
il giudice di merito ha posto il veto e ha risolto ogni premessa per la discussione
e l'ammissibilità delle discriminanti parole. È mai possibile che, in tal modo,
siano annullati i princìpi posti dal Codice penale e dai Codici penali
militari, da ogni legislazione civile, dichiarando in blocco inapplicabili tali
cause di esclusione?”.
“In definitiva, quando la
resistenza e l'insurrezione armata assume, in grande stile, forme di organismo
militare vero e proprio, quando non si tratta di una ribellione di pochi, ma di
imponenti masse, è ovvio che, nei limiti consentiti e in omaggio alle esigenze
dell'umanità i governi di fatto non possono essere trattati senz'altro come
governi aventi giurisdizione su un'accolita di ribelli e di fuori legge; ché
altrimenti, accertata l'originaria e libera volontà di porsi agli ordini della
Repubblica Sociale Italiana, risulterebbe imponente il numero dei colpevoli di
collaborazionismo, sia pure beneficiati di amnistia; in questa ipotesi la
delinquenza politica si sarebbe palesata come generalità di vita vissuta da
centinaia di migliaia di uomini e non come eccezione; il che non può essere,
perché è l'eccezione che delinque e non la generalità”.
“D'altronde, come può oggi
parlarsi più di una accozzaglia di ribelli, quando la Convenzione di Ginevra ha
inteso proprio tutelare i movimenti di resistenza organizzata, come sopra è
detto?”.
“Più che dall'essere la
Repubblica Sociale Italiana un Governo di fatto, le discriminanti in questione
traggono origine dalla riconosciuta qualità di belligeranti ai combattenti
della Repubblica suddetta. Si comprende che, negata loro tale qualità, ne
deriva ch'essi fossero un'accozzaglia di ribelli, di traditori e di banditi,
nonostante che imponente fosse il numero dei reparti, degli ufficiali, dei
decorati che non vollero deporre le armi; ammessa, invece, tale qualifica
nell'indiscutibile spirito delle Convenzioni internazionali dell'Aja e di
Ginevra, il problema delle cause discriminanti può e deve senz'altro essere
posto e risolto”.
“Lo Stato italiano punisce i
suoi sudditi, per l'opera collaborazionistica col tedesco invasore, ma nel
contempo è innegabile, per le cose dette che occorre tenere presente
l'inquadratura militare della Repubblica Sociale Italiana, delle gerarchie
costituite, degli ordini emanati e della legge militare colà imperante (quella
italiana); né può da un lato riconoscersi la belligeranza e da un altro negarsi
l'esistenza di un ordinamento militare, fondato sull'obbedienza e sulla
disciplina militare”.
“...Ciò premesso, per la serena
valutazione dei fatti occorre fissare il punto di partenza, che nella sfera
dell'ordine psicologico, prende le mosse dell'armistizio dell'8 settembre 1943.
Si è rilevato che, inizialmente, una parte delle Forze Armate italiane non
volle accettare l'armistizio e proseguì nelle ostilità contro il nemico della
guerra sino allora combattuta, intendendo mantenere fede all'alleato tedesco;
le armi italiane non furono inizialmente rivolte contro i propri fratelli, e se
scontri inizialmente vi furono tra reparti italiani e reparti italiani, più che
altro si verificarono per la fatalità delle circostanze”.
“I reparti che avevano seguito
l'ordine del Governo legittimo pensarono soprattutto a fronteggiare il tedesco
invasore, e, purtroppo, avvenne l'inevitabile, per cui si trovarono di fronte
figli della stessa grande Madre. In quei giorni nefasti il potere regio era
pressoché annullato, e solo formalmente esisteva, come si è dianzi rilevato, la
sovranità italiana. L'esercito era disperso e infranto, gli alleati apparivano
vittoriosi, tutto cadeva in rovina e grande era il disorientamento delle
coscienze. In tale confusione, nella carenza dei poteri costituzionali, il
soldato, l'ufficiale italiano fu chiamato a risolvere il tragico quesito, se
mantenere fede all'alleato o ubbidire al Governo del re”.
“Quando si afferma la tesi
della libera determinazione dei singoli nella scelta del fronte, si dimentica
la tragica situazione cui si è fatto segno, si oblia che la guerra fraterna non
fu inizialmente voluta, ma fatalmente sorse dalla disfatta, che, comunque,
tutti gli italiani, salvo pochi, amarono di sconfinato amore la loro Patria,
anche errando; che, se si può parlare di collaborazionismo e di tradimento nel
senso giuridico, non si può certo affermare che le centinaia di migliaia di
soldati, che rimasero al nord a combattere contro gli alleati e le truppe
regie, fossero un'accozzaglia di traditori. Accettare e consacrare alla storia
una tesi simile, significherebbe degradare la nostra razza, annullare il
retaggio di gloria e di valore che ci lasciarono coloro che nella guerra
immolarono la vita, creare al cospetto delle altre nazioni una leggenda che non
torna ad onore del popolo italiano”.
“Ricostruita così la verità
storica degli avvenimenti, non deve da tale ricostruzione trarsi la stolida
illazione che non vi siano colpevoli, poiché non v'ha dubbio che debbono essere
inesorabilmente colpiti coloro che agirono in mala fede, eccedettero in
faziosità, compirono azioni delittuose, crudeltà efferate ed innominabili
sevizie”.
“Tutta l'antecedente
esposizione deve servire solo ad obiettare e a serenamente apprezzare i fatti,
a non porre senz'altro le premesse di una ribellione, libera nella
determinazione e totalitaria nei delittuosi scopi, per cui si giunga
inesorabilmente a colpire quanto non è giusto colpire, e si perpetuino i
rancori, gli antagonismi, le inimicizie, allontanando la auspicata
pacificazione, che non può essere attuata se non nel clima di una tranquillante
giustizia”.
“L'impugnata sentenza ha
ritenuto che l'errore di fatto in cui possono essere caduti taluni imputati,
nel ritenere legittimi gli ordini provenienti dagli organi della Repubblica
Sociale Italiana, sia inescusabile, in quanto l'illegittimità di tale organismo
è elemento di norme penali che quella illegittimità sanciscono. Ciò non è
esatto, perché il dolo domina tutti gli estremi del reato, e alla sua ricerca
non si sottrae neppure l'estremo della illegittimità”.
“Ma v'ha di più! La tesi del
giudice di merito non può essere accolta. Una volta riconosciuto che la
Repubblica Sociale Italiana costituiva un governo di fatto e che i suoi
combattenti dovevano essere considerati belligeranti, ne consegue che gli
ordini impartiti dai superiori ai loro subordinati dovevano essere eseguiti.
Non può far velo alla soluzione del quesito, che è di ordine strettamente
giuridico, il carattere insurrezionale del Governo suddetto, per trarne
l'illazione generica della illegittimità di tali ordini”.
“La legittimità o l'integrità
non è in funzione della insurrezione, della ribellione al potere regio, ma va
posta in relazione all'organizzazione politica e militare che si era costituita
con il suo ordinamento giuridico, con le sue leggi, con le sue autorità”.
Se lo sbandamento delle
coscienze e la fatalità degli eventi portò molti combattenti nei quadri
militari della Repubblica Sociale italiana, non è esatto parlare a priori, di
illegittimità degli ordini, e tanto meno escludere le discriminanti putative,
se per giustificabile errore, i soggetti ritennero di adempiere al loro dovere
e di agire nello stato di necessità (Art. 59, Ultimo Comma, Codice Penale)”.
STORIA DEL XX SECOLO N. 46 e N.
47 del Marzo e Aprile 1999. C.D.L. Edizioni srl
COMMENTO DI PIERO PISENTI ALLA
SENTENZA
DEL TRIBUNALE SUPREMO MILITARE (N. 747 del 26.4.1954)
La larga diffusione che viene
data a questa sentenza, all’inizio del secondo decennio dalla fine della
guerra, non dovrà rimanere un fatto isolato se si vorrà imprimere più rapido
cammino alla revisione che la Giustizia italiana è andata compiendo, attraverso
una lunga serie di processi, tra le innumerevoli difficoltà di una legislazione
eccezionale rimasta in vita a servizio di pregiudiziali d’ordine politico, che
la giurisprudenza ha lentamente ma tenacemente corrose.
In un recente volume dedicato
al decennale della "resistenza" ("Dieci anni dopo" di
Valiani, Lussu, Calamandrei e altri, Ed. Laterza), abbiamo letto un ampio
capitolo nel quale, in sostanza si afferma, lamentando una pretesa
inapplicazione o, comunque, una deformante interpretazione delle leggi
cielleniste, che " quando uno Stato emana leggi che rimangono inattuate o
sono applicate alla rovescia, sarebbe ingiusto accusare il Giudice di
incomprensione": "la verità è - scrive il Battaglia - che la
Repubblica non ha conquistato quella forza politica che le supposero i
costituenti".
È molto apprezzabile questa autocritica
che proviene da uomini di primo piano nell’oggi dominante mondo politico, ma
noi riteniamo che questa confessata debolezza derivi da tutt’altre ragioni,
delle quali non si vuol discutere in questa sede, ma non mai dal fatto che la
Giustizia dimostri la sua indipendenza e abbia raddrizzato tante storture
legislative e riparato tante ingiustizie.
Questa sentenza del T.S.M. ha
sollevato le vive proteste di questo scrittore, al punto che questi le ha
dedicato un capitolo intitolato: "Il rovesciamento delle posizioni",
ma mentre ne vediamo riportate, testualmente, le principali proposizioni, non
una parola abbiamo letto a sostegno della critica contenuta in quel titolo.
Perché
"rovesciamento"?
Quando la sentenza afferma che,
dopo l’8 settembre ‘43, il potere legale nel Sud venne esercitato dagli
occupanti anglo-americani, cioè dal "nemico" poiché si era ancora in
regime di armistizio, quando si dice che il governo del re era un governo che
esercitava il suo potere "sub conditione", cioè nei limiti
assegnatigli dal comando dell’esercito anglo-americano, quando si aggiunge che
a questo governo legittimo era preclusa, "de jure", ogni
indipendenza, mentre tale preclusione non esisteva per la Repubblica Sociale
Italiana "che emanava le sue leggi e i suoi decreti senza l’autorizzazione
dell’alleato tedesco", è legittimo chiedersi in che consista questo
lamentato "rovesciamento", mentre si tratta di una realtà di fatto e
di situazioni giuridiche inoppugnabili.
Il raffronto tra il governo del
Sud e quello del Nord, dal punto di vista della indipendenza dallo straniero,
darà sempre risultati per noi favorevoli; vogliamo dire noi, italiani, e non
per noi, uomini di parte, perché la indipendenza nazionale, da qualunque parte
e sotto qualsiasi insegna difesa, è patrimonio di tutti.
Il T.S.M. ha, dunque, solamente
affermato: 1) I combattenti della RSI hanno diritto di essere riconosciuti
belligeranti; 2) gli appartenenti alle formazioni partigiane non hanno diritto
a tale qualifica, perché non portavano distintivi riconoscibili a distanza né
erano assoggettati alla legge penale militare; 3) la Repubblica Sociale
Italiana era soltanto un governo di fatto, ma poteva essere considerata, per
errore, un governo legittimo, e pertanto questo errore ha valore discriminante;
4) i combattenti della RSI, quali appartenenti a formazioni belligeranti,
dovevano obbedienza ai loro legittimi superiori e perciò hanno diritto alla
discriminante dell’adempimento del dovere.
Queste massime (le quali -
diciamo subito - non hanno alcun movente politico) sono in stretta aderenza
alle convenzioni internazionali e alla legge italiana sulla condotta della
guerra.
Perché dunque,
"rovesciamento di posizioni"?
Certo, quando si dichiara dalla
più alta Magistratura militare, che i soldati della RSI erano belligeranti,
tanto è vero che da parte anglo-americana fu ad essi riservato il trattamento
dovuto ai prigionieri di guerra, ne consegue che essi non potevano essere
passati per le armi senza un regolare giudizio. E pertanto tutti coloro che
furono fatti prigionieri o si arresero dopo il 25 aprile 1945, in obbedienza ai
bandi, e poi furono sommariamente soppressi, sono da considerarsi vittime di
estrema ingiustizia.
Che la sentenza abbia attuato
un "rovesciamento", ma in tutt’altro senso, è fuori di questione.
Essa ha rovesciato alcune posizioni di faziosità, ha distrutto definizioni
arbitrarie e ingiuriose, ha reso giustizia a tanti italiani, i quali vollero
soltanto - sia pure in istato di ribellione ad un governo che la sentenza
dimostra svuotato di autorità - combattere "per il solo bene dell’Italia,
quale essi lo ritennero".
Se inoppugnabili sono le motivazioni giuridiche della sentenza,
elevatissime e tutte intese alla vera pacificazione, sono le considerazioni di
carattere etico e storico che essa contiene.
Guerra civile? - "...la guerra fraterna non fu inizialmente
voluta, ma fatalmente sorse dalla disfatta; tutti gli italiani, salvo pochi,
amarono di sconfinato amore la loro Patria, anche errando... Non si può certo
affermare che le centinaia di migliaia di soldati che rimasero al Nord e
combatterono contro gli Alleati e le truppe regie, fossero una accozzaglia di
traditori.
Accettare e consacrare alla storia una tesi simile, significherebbe
degradare la nostra razza, annullare il retaggio di gloria e di valore che ci
lasciarono coloro che nella guerra immolarono la vita, creare al cospetto delle
altre nazioni una leggenda che non torna ad onore del popolo italiano".
Naturalmente, il magistrato doveva - dopo queste premesse d’ordine
generale - affermare il suo compito, quello che consiste - dopo ricostruita la
verità storica degli avvenimenti - nel colpire le singole azioni delittuose; ma
questo compito punitivo è illuminato dal monito solenne che non si possa
inesorabilmente colpire quando colpire non è giusto, né si debbano
"perpetuare i rancori, gli antagonismi, le inimicizie, allontanando la
auspicata pacificazione, la quale non può essere attuata se non nel clima di
una tranquillante giustizia".
La sentenza ha dunque scritto un capitolo di storia, prefazione e
premessa a quella completa ricostruzione obiettiva di un drammatico periodo
della vita italiana che, se fu tumulto di lotte e di sangue, è tuttavia
illuminato dalla luce del sacrificio e della fedeltà a ideali che non tramontano.
Può dirsi che fin qui la necessaria polemica, materiata di
affermazioni e negazioni, di accuse e di rivalse, non abbia offerto da parte
nostra quella organica documentaria dimostrazione di cui la pubblica opinione è
stata sempre in attesa. Da ciò l’importanza e la necessità di far conoscere il
responso della Giustizia sulle più ardenti questioni di fatto e di diritto
scaturite dal tempo della RSI.
Soltanto a questo modo sarà preparato il terreno per edificare,
attraverso la uguaglianza dei diritti, la nuova solidarietà nazionale con la
indispensabile partecipazione di tutti quanti consapevolmente fecero parte
della Repubblica Sociale Italiana.
Piero Pisenti (Guardasigilli della RSI)
STORIA DEL XX SECOLO N. 46
Marzo 1999. C.D.L. Edizioni srl